Primo film francese in concorso qui a Cannes e primo fragoroso applauso alla proiezione per la stampa (anche se con qualche ostinato ululato di disapprovazione) per questo romanzo di iniziazione carceraria diretto da Jacques Audiard, che ha come protagonista il disorientato diciannovenne dalle evidenti origini arabe Malik. Perché si intitola Un prophète (Un profeta) lo si capisce dopo quasi due ore di proiezione (in totale il film ne dura due e mezza), quando Malik sembra prevedere l' investimento tra un cervo e l' auto su cui viaggia, ma questo è forse l' unico punto debole di un film teso, compatto e angosciosissimo nel descrivere l' involuzione del suo protagonista da occasionale manovale del crimine a astuto e determinato boss. Quando Malik entra in carcere, nella prima scena, Audiard non si preoccupa di farci conoscere le colpe o i soprusi che ha subito (intuibili dai segni che porta ancora evidenti sul corpo). Fedele a uno stile nervoso e minimalista (che aveva già dimostrato di controllare alla perfezione nei precedenti Sulle mie labbra e Tutti i battiti del mio cuore), Audiard ci fa arrivare le informazioni essenziali, che Malik non ha famiglia, praticamente non sa leggere né scrivere e che nessuno sembra preoccuparsi per lui. Un «cane perduto senza collare» si sarebbe detto in un altro, più caritatevole contesto. Invece nel carcere diventa solo l' oggetto passivo o attivo della violenza che guida i comportamenti di tutti. «O uccidi un detenuto disposto a collaborare con la polizia o io uccido te», gli dice senza tante perifrasi Cesar Luciani, boss corso che sembra fare il bello e il cattivo tempo tra carcerati e carcerieri. E Malik fa l' unica scelta che gli permette di sopravvivere: ubbidisce. Inizia così una specie di «iniziazione alla malavita» che Audiard racconta con una macchina da presa molto mobile, che incombe su Malik un pò come sembra incombergli addosso un destino che lo vorrebbe ridurre a ingranaggio di un gioco più grande di lui e che lui cerca di orientare a proprio favore. Man mano che il film procede prendono forma altre dinamiche importanti della vita in carcere, dalla possibilità di svolgere anche lì attività illegali (come lo spaccio di droga) all' intreccio tra orgoglio razziale, appartenenza ideologica (i «fratelli» arabi) e lotta per la supremazia. Ma su tutto al regista interessa raccontare l' evoluzione molto darwiniana del suo protagonista, che giorno dopo giorno imparerà a stare sempre meglio a galla. Senza vere radici né di clan né di razza, nonostante le sue evidenti origini arabe, il protagonista cerca di barcamenarsi tra tutti, subendone gli scoppi di violenza e ogni volta facendo un passo avanti nella comprensione dei rapporti di potere e delle molle che li guidano. Pronto a fare il «figlio» per un padre/boss che forse ne sottovaluta l' intelligenza e capace di trasformarsi lui stesso in «padrone» quando il risultato può fargli comodo. Oltre che a elaborare nel proprio inconscio gli incubi e i sensi di colpa così da poterci tranquillamente convivere, come mostrano alcune scene «fantastiche». E alla fine, anche grazie a un gruppo di attori straordinari dove svettano Niels Arestrup (è Luciani) e il meno conosciuto ma non meno efficace di Tahar Rahim (Malik), Audiard ci racconta non solo la nascita di un nuovo Mackie Messer (come sottolinea esplicitamente la musica finale) ma soprattutto l' universo senza speranza che si annida dentro il mondo delle carceri, dove si impara solo a essere più violenti e più avidi di quanto non si fosse prima di entrare.
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Il Corriere della Sera, 17 maggio 2009 .